sabato 8 gennaio 2011

La leggenda del piccolo Alcibiade e del suo primo sorriso

Quando Zeteste abbandonò il trono e i figli per tornare dalla moglie e le figlie, il giovane Alcibiade, bambino di sette anni, salì al trono. Non uno dei nobili si dichiarò contrario e a nessuno venne mai in mente di contraddire una sua decisione, tanto era il carisma, tanto l’ingegno del giovane re. Oriel, suo fratello minore, non aveva mai conosciuto la madre, partita dopo la sua nascita, e poco aveva goduto delle attenzioni del padre. Si era, quindi, abituato a dipendere dal fratello e a riversare in lui ogni affetto. Si narra che Alcibiade fosse solito governare stando seduto sul grosso trono che era appartenuto al nonno, tenendo sulle ginocchia il fratellino, il più delle volte addormentato, poiché gli affari di stato lo annoiavano, come a qualunque bambino.
Alcibiade era un bel bambino con neri capelli ricci e tratti del volto delicati. La voce era calma e dolce e tranquillizzava chiunque lo ascoltasse, ma la caratteristica che in lui più colpiva erano gli occhi tristissimi. Quegli occhi sembravano aver visto il male più nero e sembravano appartenere a qualcuno che portasse in se tutto il male del mondo. Coloro che gli chiedevano udienza per cause di poco valore, subito si vergognavano e se ne andavano scusandosi, i colpevoli confessavano e gli ingiusti si pentivano rattristandosi di aggiungere altro dolore a un bambino tanto triste.
Da tre anni governava ormai Alcibiade e, nella ricca e fiorente città, non vi era cittadino che non pensasse a come rendere felice il giovane re. Molti gli inviarono doni, che il re dimostrò di gradire, ma che non furono capaci di muovergli un sorriso. Anche Oriel cominciò a preoccuparsi, rendendosi conto che il fratello non aveva più sorriso dalla partenza del padre. Pensò che fosse la pressione delle responsabilità a rattristarlo, e cercò di affiancarglisi al governo, ma era solo un bambino di 8 anni, e per quanta buona volontà ci mise, per quanto idee e intenzioni fossero buone (era pur sempre il futuro imperatore), la mancanza di esperienza e di lungimiranza causavano, il più delle volte, problemi che Alcibiade era poi costretto a risolvere, stancandosi ulteriormente. Oriel maledisse genitori e dei che lasciavano soffrire così il fratello, ma più di tutti maledisse se stesso che non riusciva a rallegrarlo. L’invettiva giunse alle orecchie degli dei che, invece d’irarsi contro chi la pronunciava, biasimarono se stessi per aver trascurato il giovane re. Gli dei si riunirono e decretarono che era giunto il momento di aiutare il piccolo sovrano. Alla dea amore fu affidato il compito di farlo sorridere, e le fu concesso di usare il potere di ciascuna dalle altre divinità, se fosse stato necessario. Amore entrò nella notte, nella camera dove i due fratelli dormivano insieme. Li svegliò entrambi, felicitò Oriel per la giusta invettiva, poi li condusse entrambi in volo in ciascuna delle case di Caledonia e fece entrare le loro menti nel cuore di ogni Caledone. Alcibiade che soffriva dell’abbandono dei genitori, della paura di rendere infelici gli abitanti e di non essere all’altezza del compito assegnatogli, aveva paura di quel che avrebbe scoperto. Ma guardando nel cuore dei sudditi, il piccolo re, trovò mille padri, madri e fratelli, tutti preoccupati, fieri e tristi per lui. Stupito da tanto affetto, cominciò a piangere di gioia, e Oriel con lui. In ultimo la dea fece vedere ad uno nel cuore dell’altro. L’un altro si videro come la cosa più bella e importante. Amore baciò Alcibiade in fronte (dicono che il bacio di amore si la più bella sensazione che l’uomo possa provare) e se ne andò lasciandogli per quella notte il dono del volo. Quella notte i fratelli giocarono in cielo come tutti i bambini giocano in un cortile, come tutti i bambini risero e si stancarono.
Il giorno dopo, il re riprese normalmente a governare lo stato, ma i suoi occhi erano ora sereni e il suo volto era capace di rallegrarsi.
Alcibiade governò ancora per diciotto anni, dopodiché una notte sparì. Il mattino dopo Oriel nominò un nuovo re, e partì, facendo perdere le proprie tracce per alcuni anni. Di Alcibiade non si seppe più nulla. Il trono che fu suo non fu mai più usato. Esso si trova oggi nella sala consiglio del Castello Estivo, su di esso la statua lignea di Alcibiade bambino con la corona troppo grande e lo scettro posato ai piedi, il corpo del fratello addormentato sulle ginocchia. Alcibiade poggia il capo sulla mano sinistra e con la destra accarezza i capelli di Oriel. La statua risale al 20-15 A.R., cioè al tempo in cui ancora Alcibiade governava. Fu scolpita da un maestro anonimo che la donò alla città quando Oriel partì. La statua siede sul trono dal allora. Alcune leggende vogliono che l’anonimo maestro fosse il di Caos in persona. Per tradizione ancora oggi, i governatori e lo stesso imperatore chiedono consiglio alla statua prima di prendere le decisioni più importanti. Non risulta che la statua abbia mai risposto.

La leggenda della scomparsa dei Sobrimori

Sobrimal, figlia di Calicot l’eccentrica, era a capo del partito dei sobri mori. Incitava il popolo a ribellarsi, a rovesciare il potere, a porre lei al governo. A quel tempo, vi era a Caledonia, un governatore che ancora oggi è motivo di vergogna per la categoria, ma governava da soli quattro mesi ed era già gravemente malato, tanto che non si pensava sarebbe vissuto a lungo. La popolazione scontenta, quindi, ne aspettava la morte e non nutriva propositi di rivolta. Solo Sobrimal e i suoi volevano la rivoluzione. Sobrimal progettava un colpo di stato, ma fu tradita da Berth, il suo braccio destro. I Sobrimori si rifugiarono nel castello di Calicot, detto “castello 31 24”.
La notte del progettato colpo di stato il governatore morì. Il suo posto fu preso da un uomo buono e giusto, come la più parte di essi. Il nuovo governatore fece grazia ai Sobrimori e gli concesse di tornare in città. Sobrimal la sfrontata decise di restare nel castello della madre, decisa a scoprire quale dei suoi fosse il traditore e ucciderlo. Impauritosi, Berth, scappò e, per facilitarsi la fuga, rapì Bysith, figlia di Sobrimal. Berth fuggi nel bosco sobrio, ma l’ostaggio lo rallentava, continuando a dibattersi e a urlare. Rendendosi conto che i sobri mori lo avevano quasi raggiunto, Berth il mago, elaborò il suo piano di morte: incantò la ragazza con un tocco di morte, chiunque l’avesse toccata sarebbe morto, così come chiunque avesse toccato qualcuno morto per averla toccata. Si sarebbe così propagata una catena infinita di morte. Sobrimal raggiunse la ragazza e l’abbracciò, morendo, ugualmente morirono tutti i Sobrimori, cercando di aiutarsi l’un l’altro. Sopravvissero solo Bysith, portatrice dell’incantesimo e Berth, suo autore. Berth fuggi e Bysith si trovò sola nel bosco, circondata dal cadavere della madre e da quelli di tutti i suoi compagni. Pensò di correre a cercare aiuto, ma si rese conto che chiunque avesse tentato di aiutarla sarebbe morto, allora, da sola, arse i cadaveri. E quando tutti i cadaveri ebbero finito di bruciare ed ebbe lungamente pregato per ciascuno di loro, si getto nel fuoco, per interrompere finalmente la catena. Berth, allontanatosi abbastanza da ritrovare la ragione dopo il panico che lo aveva colto, si ricordò improvvisamente perché non aveva mai usato prima quell’incantesimo: chiunque lanci la catena di morte è destinato a morire per sempre, dolorosamente, ininterrottamente, ripetutamente, per l’eternità. Ma come aveva potuto dimenticare una cosa tanto importante? Prima di cominciare a morire, Berth, si ricordò delle parole del suo maestro, quando l’aveva scoperto a studiare il libro delle Antiche Magie del Terrore (AMT):”Malvagio è chi le studia, malvagio chi le inventò, malvagio chi le insegna e chi è disposto ad usarle. Ma massimamente malvagie sono le magie stesse, che ti spingono, ti esortano e ti ingannano, affinché tu compia il male e ne sia sopraffatto. Se vuoi usarle e dominarle devi essere più malvagio di loro, ma tale malvagità non ti appartiene, discepolo mio.”
I fornitori di vivande arrivarono, come ogni mese, al castello, e lo trovarono vuoto. Cercarono i Sobrimori nel bosco, ma trovarono solo le ceneri di un grande falò e nessun segno di lotta. Non cercarono a lungo nel bosco, perché sentivano come un’inspiegabile paura e la sensazione della morte dell’anima. Che ne sia del corpo di Berth, eternamente morente, è un mistero.

La leggenda dell'isola di risacca

Nell’898 N.R., spuntò in mezzo al mare l’isola di Risacca, chiamata così dal nome del mercantile che per primo l’avvistò. Sono passati più di cent’anni e nessuno ha ancora saputo spiegarne l’origine. Qualcuno sostiene che l’isola fosse sempre stata al suo posto, ma che fosse invisibile e che casualmente nessuna imbarcazione abbia mai tentato di attraversare lo spazio che occupa. Qualcuno sostiene che l’isola sia un ammasso di terra sulla carcassa di qualche mostro gigante, e che quindi non sia bene salda al terreno e si stata portata da qualche corrente o tempesta, questa ipotesi non spiega l’apparizione improvvisa. Qualcun altro sostiene sia fuoriuscita dal mare la notte prima che apparisse, ma in questo modo non si spiega la presenza di flora e fauna terrestre. Qualcuno dice che è così, perché questa fu la volontà degli dei. Questo è vero, ma non spiega nulla. Non esiste una spiegazione plausibile, né un mito ufficiale, sulla vicenda, tuttavia questa vicenda mi ha fatto tornare alla mente un mito più antico, risalente al 400 N.R., e riferito ad una città sconosciuta.
In una fascia poco lontano dal mare, un contadino zappava il suo orto, quando qualcosa sulla superficie del mare attirò la sua attenzione: un uomo addormentato dormiva sulla superficie delle acque, senza essere immerso, la corrente lo portava verso riva. Il vecchio contadino corse, come meglio poteva, in riva al mare, per vedere quel prodigio. Vide che l’uomo non era sull’acqua, ma su una zolla erbosa poco più grande di lui, la zolla galleggiava e lo portava a terra. Giunto alla spiaggia, la zolla non si fermò, ma galleggiò sulla sabbia, si fermò solo quando raggiunse dell’altra erba, lì, si fece spazio e si adagiò. Ora l’uomo sembrava dormire su un comunissimo prato. Il contadino gli si avvicinò, il dormiente aveva i capelli bianchi, lunghi e ricci, un volto dall’aria antica, ma nessun segno di vecchiaia, era il volto di un uomo maturo. Guardandolo, il contadino seppe dire una sola parola: Amler. Sentendo pronunciare il suo nome, Amler si sveglio, salutò il contadino e gli chiese se quella nei pressi era la città che entrambi chiamavano casa, il contadino rispose che era così. Amler si levò, salutò e ringraziò il contadino, poi s’incamminò alla città. Mesi dopo, il contadino era ancora al suo orto, quando vide Amler tornare. Gli corse incontro portando con sé ortaggi pane e formaggio, in cesto; raggiuntolo, glielo offri. Amler accetto il dono, e chiese al contadino: “cosa desideri?” “Mesi fa ho cacciato di casa mia figlia, non ancora sposata, ma incinta di uno sconosciuto. La sogno spesso, è sola e il bimbo sta per nascere. Vorrei ritrovarla per vivere poi tutti insieme”. Amler guardò il vecchio e non parlò, si appoggiò ad un albero, reggendo il cesto. L’albero si mosse e con lui la terra vicina, portarono Amler alla spiaggia, sul mare, oltre l’orizzonte. Il vecchio tornò a casa. Quella notte, non riuscendo a dormire, si alzò e uscì. Vide sul mare una zolla di terra che si avvicinava, portando la figlia addormentata, la zolla la portò fin sulla soglia di casa, lì la depose e si confuse al terreno.

La leggenda del dio del mare e delle ninfe delle conchiglie

Caledonia aveva poco più di 130 anni, quando Zeteste, figlio di re Anakineste e padre di Oriel e Alcibiade, salì al trono. Zeteste era il più bel giovane che Caledonia avesse mai generato. Aveva trascorso la gioventù in riva al mare, a pescare e nuotare. Quivi aveva incontrato le ninfe delle conchiglie, che innamoratesi di lui, avevano deciso di rendesi visibili e di godere della sua compagnia. Tra le ninfe, Zeteste scelse la sua sposa, Fasì, loro regina, di ogn’altra più bella. Tra gli sposi regnava l’armonia e decisero che le figlie che avrebbero avuto, sarebbero diventate ninfe e avrebbero vissuto nel mare, i figli sarebbero cresciuti sulla terra e avrebbero succeduto al padre sul trono di Caledonia. Quattro figlie erano già nate, quando morì Anakineste e Zeteste fu costretto a salire al trono e andare a vivere al palazzo di Caledonia, abbandonando la capanna in riva al mare in cui aveva a lungo vissuto. Zeteste portò con sé Fasì, e le costruì una grande piscina d’acqua marina in cui potessi dormire. Nel tempo in cui visse a Caledonia, Fasì mise al mondo 2 maschi a distanza di due anni. Dopo la nascita del secondo figlio, la nostalgia che aveva del mare divenne sempre più forte, decise, quindi, di tornare al suo mondo. I bambini e il marito sarebbero restati in città, ma gli sposi si sarebbero incontrati ogni giorno all’alba in riva al mare. Intanto il dio del mare, potente e temuto, ma molto brutto, aveva ordito un piano per rapire e sposare una ninfa delle conchiglie. Le ninfe lo avevano sempre rifiutato, e si nascondevano nelle loro conchiglie quando lo sentivano arrivare. Il Dio era divenuto folle di gelosia, quando aveva saputo che le ninfe erano uscite spontaneamente per mostrarsi a Zeteste, l’umano. Approfittando dell’assenza della regina, aveva creato un finto Zeteste e l’aveva mandato a camminare sulla spiaggia. La copia era facilmente distinguibile dall’originale, ma le 4 figlie, accecate dal desiderio di rivedere il padre, gli corsero incontro. Essendo lontane dalle loro conchiglie, non poterono scappare quando videro il dio del mare uscire dall’acqua. Furono catturate, ma il dio fu piuttosto deluso nel rendersi conto che erano troppo giovani per diventare sue spose. Fu felice scoprendo che erano le figlie della regina, pensò di ricattarla facendosi dare in sposa una delle altre ninfe. Quando Fasì tornò al mare e seppe del ricatto, disse al re del mare: “Scegli delle mie figlie quella che desideri, aspetta che sia grande abbastanza e sposala, io te la do”. La regina conosceva le sue figlie, conosceva anche il dio, sapeva che per quanto brutto, burbero e spavaldo, non era cattivo, e non avrebbe usato violenza alle ragazze. Inoltre le 4 fanciulle erano luna più bella dell’atre e dotate di poteri straordinari, il re non avrebbe saputo scegliere rapidamente. Passava il tempo e le giovani crescevano alla corte del re, trattate con tutti i riguardi. Successe che una delle quattro s’innamorò veramente del re, brutto ma gentile. La regina non riusciva a crederlo, cercò di dissuadere la figlia, e, vedendo che questa non cambiava idee, chiamò Zeteste perché ci parlasse lui. Già da tempo Zeteste avrebbe voluto andare alla reggia del dio marino per rivedere le figlie, ma questo avrebbe voluto dire diventare una creatura acquatica e abbandonar il mondo degli uomini e i due figli. Alcibiade aveva allora 7 anni e superava in intelligenza i saggi del regno, Zeteste decise che poteva abbandonarlo per cercare di salvare la figlia. Zeteste lasciò il regno terrestre, andò alla reggia e parlò con la figlia, e convincendosi che la figlia sarebbe stata felice, acconsentì al matrimonio.

La leggenda dell'antica amicizia del dio del mare col popolo di Caledonia

Tanto tempo fa, quando l’epoca degli uomini era appena cominciata e il mondo non era ancora completo, il dio Tempo si accorse che le cose nel mare non andavano affatto bene. Il popolo marino, nascosto dalla superficie del mare agli occhi degli dei, viveva ignorando le leggi divine e trascurava ogni principio di armonia e ordine, che era invece sovrano nel resto del mondo. Poiché Tempo era occupato da questioni più urgenti, incaricò Fortuna di scegliere una creatura cui donare lo scrigno dei poteri che l’avrebbe trasformata in divinità. A questa creatura sarebbe stato affidato il controllo del mare. Fortuna fu ben lieta di poter scegliere da sola: Tempo le avrebbe sicuramente impedito di dare i poteri alla creatura che favoriva in quel momento. Il suo nome era Teneidon, era un semidio figlio di Amore e uno strano mostro marino, Ghilfin. Ghilfin era il mostro più debole e maldestro che si fosse mai visto, e Amore gli si era concessa mossa da pietà. Teneidon era brutto e goffo, ma fortuna aveva sempre prediletto le creature più improbabili. Fortuna donò a Teneidon lo scrigno ed egli divenne il dio del mare. Quando Tempo fu informato della scelta di fortuna, la chiamò al suo cospetto e la rimproverò aspramente. Fortuna non era disposta a subire in silenzio: si scatenò un litigio che durò un paio di secoli. In quel periodo il mondo rimase privo della guida del padre Tempo, e Teneidon fu privato dell’appoggio che Fortuna gli aveva promesso. Gli aitanti del mare non gli portavano rispetto e gli disobbedivano, rifiutandosi di obbedire a un re tanto privo di grazia. Teneidon, dio, aveva forza e poteri tali da costringere il popolo marino all’obbedienza, ma non voleva ricorrergli. Il suo cuore tenero e la convinzione che l’obbedienza derivasse (o dovesse derivare) dal rispetto e non dalla paura, gli impedivano di usare la forza sul popolo marino.
Un giorno, il brutto dio, piangeva avvilito su uno scoglio in riva al mare; un uomo pescava poco distante. L’uomo vide una bellissima e imponente creatura in quello che i marini vedevano come un brutto e goffo sovrano. Infatti, a quel tempo, gli uomini erano creature sporche e rozze, più simili alle scimmie che agli dei, ai loro occhi, e in confronto a loro, il dio del mare non era privo di bellezza. Il pescatore corse al villaggio e tornò in compagnia di molti dei suoi simili, tutti portavano doni e cibi al dio. Commosso da tale spontanea manifestazione di reverenza e rispetto, il dio decise di aiutare gli uomini a dispetto degli abitanti del mare. Gli insegnò a nuotare, a costruire barche e i segreti delle creature marine, in modo ch’essi poterono pescare con maggior efficacia e sfuggire ai mostri marini. Agli uomini, in cambio di questi segreti e della protezione alle navi, chiese di limitare la zona di pesca. Da quest’antico patto deriva l’usanza rispettata tuttora dai pescherecci della regione caledone, di non pescare oltre la linea da cui dal mare si vede all’orizzonte la terra.
Gli uomini, grazie al favore di Teneidon, ebbero cibo in abbondanza e divennero i padroni della superficie marina. I Caledoni trasmisero, poi, le proprie conoscenze agli uomini delle altre regioni, ma si dice ci siano segreti che solo i marinai caledoni conoscono.
Presto gli abitanti del mare si trovarono a temere gli uomini, le loro barche, le reti e le loro conoscenze. Avevano l’impressione che conoscessero tutti i loro segreti. Re Teneidon parlò al suo popolo, gli rivelò come gli uomini godessero del suo favore e gli descrisse il patto stipulato. Gli abitanti del mare si resero conto del rispetto che i dio meritava, gli giurarono rispetto e obbedienza e lo supplicarono di non favorire eccessivamente gli uomini a loro discapito. Il dio promise di mantenere un equilibrio, agli uomini era concesso di pescare vicino alla costa e di navigare, ma il mare apparteneva a loro e se gli uomini avessero mostrato di non rispettare la sovranità degli abitanti del mare, li avrebbe puniti severamente. Da allora Teneidon governa il mare con giustizia, osservando le leggi di Tempo e di Thabil. Gli umani dimenticarono l’antico patto e ora navigano e pescano ovunque, ed è per questo che la navigazione è un mestiere tanto pericoloso. Solo i Caledoni, discendenti della tribù che incontrò il Dio, rispettano l’antica usanza, e le loro navi sono protette dalla furia dei mari.

La leggenda di Crateste e delle mura cittadine

Nel 521 N.R, Crateste fece costruire le mura cittadine. Le ragioni che lo spinsero sono avvolte nel mistero: alcuni dicono che, semplicemente, impazzì, altri sostengono che lo fece per dare alla città un degno aspetto di città imperiale, secondo il costume in uso nei regni umani, in cui aveva spesso viaggiato in gioventù.
La leggenda, pero, dice che, anni prima, Crateste avesse sposato una brutta e vecchia principessa, durante uno dei suoi numerosi viaggi, e che l’avesse fatto solo per le ingenti ricchezze della sua dote. La principessa, d’altro canto, semplicemente voleva un marito, e non le interessavano le ragioni del matrimonio. Pochi giorni dopo il matrimonio, però, la principessa si getto dalle mura del proprio castello. La leggenda vuole che fosse per la disperazione di avere un marito che, pur tentando alacremente, non riuscisse a consumare il matrimonio. Crateste si tenne la dote e rientrò nella patria Caledonia, dove divenne governatore. Quando divenne vecchio, cominciò a sognare la prima sposa, che lo accusava di essersi impadronito ingiustamente della sua dote, che non essendo mai stato un vero sposo, non ne aveva diritto. La donna chiedeva indietro in suo denaro, voleva che fosso posto nelle mura da cui si era lanciata. Quelle mura non esistevano più, essendo stata la sua città rasa al suolo diversi anni prima. Crateste, allora, fece ricostruire mura simili a Caledonia e vi depose un tesoro pari alla dote presa ingiustamente.
Timete, che fece demolire quasi completamente le mura, non vi trovò alcun tesoro.

La leggenda di Farsif e del grande terremoto

Era Farsif un nano deforma, giullare di corte, canzonava e insultava i sovrani e non v’era sant’uomo in cui non trovasse motivo di scherno. Non aveva parole proibite, e non vi era chi si offendesse, ma il motteggiato rideva come tutti gli ascoltatori. Nessuno poteva offendersi con Farsif, perché il suo aspetto suscitava insieme tanta pietà e insieme tanta ilarità che Thabil l’avesse punito prima della nascita per ogni cosa che avrebbe detto in vita. Farsif era stimato e ben voluto, e si arricchiva insultando i potenti. Un giorno si ammalò gravemente e mandò a chiamare Ippocrate di drago Fiorito, il più gran medico vivente a quei tempi. Le sue cure erano costose, ma infallibili. Farsif era ricco e non badò a spese. Ippocrate era all’altezza della sua fama, guarì Farsif con tanta efficacia che non solo gli tolse la malattia per cui era stato chiamato, ma anche quelle croniche che lo avevano reso gobbo e deforme. Fu così che Farsif divenne semplicemente un brutto nano (umano nano); ora che la sua deformità era sparita restava solo la bruttezza e il suo aspetto era solo antipatico, non più patetico. Farsif comprese subito che da quel momento non avrebbe più potuto dire quel che volesse, ma che anzi, avrebbe dovuto fare estrema attenzione a quel che diceva. La sua carriera di giullare era finita. Da quel momento prese a stare solo il più possibile, evitando chiunque potesse sentire il desiderio di vendicarsi di qualche offesa, ma ovunque andasse c’era chi lo riconosceva e lo insultava o malmenava. Cadde nella più nera disperazione: ripensava alla sua vita passata e si chiedeva se fosse possibile non aver lasciato alcun ricordo positivo di sé. Più se lo chiedeva più si rendeva conto che la risposta era no. Un giorno, guardando dalla finestra, riconobbe in un mendicante per strada, uno studioso che aveva fatto screditare con i suoi motteggi. Lo chiamò e lo fece entrare in casa, lo sfamò, lo vestì e si offerse di fare qualsiasi cosa per farsi perdonare il passato. Lo studioso gli disse: ” Se vuoi fare qualcosa per me, aiutami a convincere la gente di quel andavo dicendo prima che tu, non credendomi, convincessi gli altri a non credere. Aiutami a persuadere i Caledoni a mettersi in salvo, perché davvero tra pochi mesi, un terremoto distruggerà la nostra città”. Farsif credette alle parole di un povero vecchio che non aveva nulla da guadagnare a predire disastri. Prese a bussare a ogni porta, avvertendo tutti i cittadini del pericolo imminente. L’incredulità, i motteggi e le percosse non lo dissuasero, continuò a gridare a tutti di stare attenti, che il terremoto era prossimo. Quando si sentirono le prime scosse, già forti abbastanza da spaccare case e strade, non si unì a chi fuggiva, ma corse in un tempio e pregò perché la gente si salvasse. Mossi da pietà gli dei decretarono che si sarebbe salvata ogni abitazione in cui abitasse almeno un Caledone che aveva creduto al nano. Molte case in legno dei quartieri più poveri si salvarono, ma solo 7 edifici in pietra furono risparmiati. Passato il terremoto, il nano fu trovato morto nel pantheon, dove era corso a pregare e che si era salvato dalla distruzione.

La leggenda di Manter e della liberazione dagli elfi

Quando Farrel morì senza eredi, l’esercito elfico era ancora in città. Il comando dell’esercito elfico aiutò Zark, cugino di Farrel, a salire al trono. Zark era un sovrano fantoccio, il vero padrone della città era il generale elfico. I Caledoni avevano, dapprima, accolto con gioia i soldati elfici, ma questi avevano ben presto cominciato a farla da padroni, vessando particolarmente la componente nanica della popolazione. Dalle violenze elfiche nacquero molti mezz’elfi e nanelfi. Manter era un nanelfo di 4 anni, sua madre era una nana e suo padre un soldato elfo che l’aveva sedotta per scommessa, come lui stesso le disse ad atto compiuto. La nana si era da poco sposata ad un vedovo umano, la cui moglie era morta dando alla luce una mezz’elfa che ora aveva 2 anni. Un giorno la nana al ritorno dal mercato con Manter e la bimba, incontrò il padre di Manter. L’elfo riconobbe la nana che gli aveva fatto vincere 4 boccali di birra, e cominciò a molestarla, senza curasi della bimba che aveva in braccio, né al bambino che le stava accanto. Quando la nana lo respinse, il soldato la colpì con un pugno, mandandola a terra svenuta. Manter spinse l’elfo, questo cadde e non fece in tempo a riprendersi dalla sorpresa di vedere questo piccolo nan’elfo che Manter gli aveva rotto il cranio con una pietra trovata per terra. Numerosi Caledoni e alcuni soldati elfici avevano assistito alla scena e, quando gli elfi tentarono di prendere il bambino, i Caledoni lo difesero, iniziando così la rivolta che in 15 giorni avrebbe portato alla liberazione della città, ma anche un nuovo incendio che la distrusse quasi interamente.

La leggenda di Hardmuth Nur

Nell’estate del 148 A.R., i nani di Canizzaro, capeggiati da Porpora la condottiera, attaccarono la giovane città di Caledonia, decisi a conquistarsi una colonia nel territorio umano. A quel tempo regnava il giovane Farrel, figlio di Onolan. Egli, sovrano giusto, ben voluto, dotato di grande senso del commercio e amore per l’arte, rendeva ricca e bella la città. Quando si ebbe notizia dell’imminente attacco dei nani, Farrel incaricò Hardmuth Nur della guida e della difesa della città, mentre lui si occupava della salvaguardia delle ricchezze e della persona del re. Hardmuth Nur era figlio di un servo di Onolan ed era coetaneo di Farrel, i due erano cresciuti insieme. Hardmuth Nur era bello, coraggioso, forte e brillante. Farrel era bruttino, goffo e pavido, intelligente, ma meno dell’amico. Chi conosceva entrambi, però, amava Farrel e odiava Hardmuth Nur. Il primo, infatti, era gentile ed affabile, Hardmuth Nur era violento, amante della rissa ed irrispettoso. Solo Farrel a Almir, sua sorella, erano capaci di placare Hardmuth Nur, il quale inspiegabilmente rispettava Farrel (Farrel stesso non sapeva spiegarselo) e amava, ricambiato, Almir con una tenerezza che non sembrava appartenergli. Farrel aveva acconsentito al loro matrimonio, nonostante i pareri contrari di parenti e popolo.
Hardmuth Nur, a capo del piccolo esercito Caledone, difendeva la città, mal fortificata e prevalentemente di legno, respingendo gli attacchi nanici sia via mare che sulla terraferma. Si dice che riuscisse a fronteggiare de solo anche 40-50 nemici, e che la sua intelligenza strategica fosse senza pari. La città che lo aveva disprezzato, ora lo acclamava come un eroe.
Porpora si rivolse ad un indovino, e questi vaticinò che la vittoria sarebbe stata sua se si fosse impadronita della moglie dell’eroe Caledone. La generalessa sospese gli attacchi diretti, ma mantenne l’assedio. Lasciò ai Caledoni la possibilità di rinforzare le proprie difese e diprendere energie, ma anche di abbassare la guardia quel tanto che permise a 2 umani al servizio dei nani di penetrare in città. Poi, riprese ad attaccare insistentemente per tenere occupato Hardmuth Nur. La forza di quest’ultimo sembrava aumentare di giorno in giorno e le perdite naniche furono ingenti, am i 2 uomini al servizio di Porpora riuscirono a catturare Almir e a condurla a lei. La generalessa mandò ad Hardmuth Nur questo messaggio: “Ho la tua donna, dammi la città per la sua vita. Se rifiuti prima la darò al mio esercito, poi io stessa la torturerò come nemmeno puoi immaginare, infine la ucciderò. E sarà soltanto colpa tua”.
Hardmuth Nur sapeva che anche cedendo, Almir non si sarebbe stata risparmiata. Trucidò il messaggero e riprese ad attaccare con veemenza raddoppiata, deciso a scacciare i nani, vendicarsi e infine togliersi la vita.
Porpora fece come aveva minacciato, ma si rese conto che, se l’eroe avesse continuato ad attaccare così, per lei sarebbe stata la fine, quindi tornò dall’indovino, pronta a punirlo per il vaticinio errato. “Fa che Hardmuth Nur la veda”, le disse questi. Lei lo fece imprigionare ma attese prima di ucciderlo. Andò da un mago e fece incantare il cadavere della ragazza in modo che chiunque lo vedesse vedesse le immagini di quel che le era stato fatto, e lo fece recapitare ai Caledoni. Il corpo fu caricato su un carretto e coperto, in modo che i soldati nani non lo vedessero. Il carro fu recapitato al campo Caledone. Quando Hardmuth Nur la vide, senti in mente le parole di Porpora “..e sarà solo colpa tua”, perse la ragione e cominciò ad uccidere tutto quel che gli era vicino. Furono i suoi stessi soldati ad ucciderlo, costretti, per salvarsi dalla sua furia. Eliminato Hardmuth Nur, i nani conquistarono facilmente Caledonia e la incendiarono. Alcuni soldati nanici, videro il cadavere di Almir, furono presi da sdegno e passarono alla parte Caledone. Quando la città cadde, subirono la sorte dei suoi cittadini.
Tuttavia la crudeltà di Porpora non restò inpunita: le maledizioni degli sconfitti, dei caledoni morti per mano di Hardmuth Nur, di quelli che furono costretti ad ucciderlo e dell’indovino stesso (ucciso per timore che rivelasse la tattica usata), furono ascoltate dagli dei. Il giorno stesso in cui prese Caledonia, Porpora fu richiamata a Canizzaro da una lettera urgente (per sapere cosa le successe, vedere leggende di Canizzaro).
2 anni dopo Farrel ritornò a Caledonia, accompagnato da un esercito elfico, che scacciò gli invasori. Il denaro che era riuscito a salvare lo aveva usato per finanziare i mercenari elfici. I nani che erano passati a parte Caledone restarono in città.
Farrel morì nel 144 A.R., alcuni dicono in seguito a una malattia, altri dicono che si spense avendo perso la voglia di vivere dopo avere saputo della sorella, altri ancora sostengono che si trafisse con la spada appartenuta ad Hardmuth Nur.

La leggenda di Ledam e della fondazione della città

La regione dove ora sorge Caledonia era, un tempo, una stretta lingua di terra che portava al mare, costeggiando da un lato le colline del Barocco, e, dall’atro, le grandi paludi. Le paludi erano abitate da ogni sorta di mostri e bestie, i cui esemplari più pericolosi erano le zanzare malariche e la sogliole melmose giganti dalle mille bocche. Gli uomini vivevano sulle colline, e avevano lascito la pianura compresa tra i picchi gemelli e il picco solitario alle fate Codalunga. Questo genere di fate somigliava poco al tipo più comune: si narra, infatti, che fossero alte circa 40 cm, ricoperte di pelo grigio e dotate di ali piumate che non permettevano il volo, ma aiutavano i salti (come le ali di gallina). Possedevano, inoltre, una coda argentea di circa 40 cm. Le fate Codalunga vivevano in società simili a quelle umane, non è ben noto di cosa si nutrissero, ma è certo che praticassero l’allevamento di numerose creature incantate (per una documentazione più approfondita, vedere: “La vita nel nostro mondo dalle origini (o quasi) ad oggi ( più o meno)” dei naturalisti Timbegen e Von Frish). La fate erano i naturali nemici di numerose bestie di palude, e, grazie a loro, gli uomini non avevano da temere né la malaria, né gli attacchi della sogliola. Il sangue umano era l’unica cosa che potesse uccidere le fate, ma gli uomini lo ignoravano. In uno dei villaggi delle colline nacque un giorno Ledam. Egli mostrò fin da giovanissimo grandissima attitudine per la caccia e un altrettanto grande disinteresse per le leggi e i divieti. A 15 anni era il cacciatore più grande della regione. Ledam girava di paese in paese accompagnato dagli amici Carol e Onolan, cacciando le bestie che infastidivano i contadini e i mostri che attaccavano i villaggi.
Un giorno, i tre amici decisero di cimentarsi nella caccia di qualcosa di realmente pericoloso: i mostri delle paludi e, in particolare, la sogliola. Partirono e, recandosi alle paludi, attraversarono i territori delle fate, ignorando il divieto per gli uomini di entrare nei domini delle fate e incuranti della pena all’esilio che colpiva i trasgressori. Per sei mesi restarono nelle paludi, liberandole da quasi tutti i mostri, e trovando metodi efficaci ad allontanare le zanzare. Non potendo tornare tra gli uomini e non volendo restare nelle paludi, si costruirono una casa nel territorio delle fate. Notarono che, pur essendo visibilmente contrariate dalla loro presenza, le fate non li attaccavano. Non si curarono del loro malumore, ma anzi, desiderosi di compagnia, andarono di villaggio in villaggio invitando i giovani ad unirsi a loro. Nel territorio delle fate nacque un villaggio, che fu chiamato Caledonia, dall’unione dei nomi dei fondatori. Le fate continuavano a non attaccare, consce del pericolo rappresentato dal sangue umano. I paesani, però, organizzarono una spedizione contro i tre sacrileghi fondatori di Caledonia. Fu la prima battaglia combattuta dai Caledoni, e fu la prima vittoria, ma il sangue versato s’impregnò nel terreno e raggiunse le fate. Ne uccise la più parte e costrinse le superstiti a rifugiarsi sui tre picchi. Prima di andarsene la regina delle fate maledisse la città: 3 volte essa sarebbe stata distrutta e ricostruita, prima del suo che avrebbe segnato la 4° e definitiva distruzione. Alla maledizione della fata si unì quella di tutti gli dei.
Ledam, profondamente pentito, sacrificò la sua vita per placare l’ira degli dei. Lasciò ai suoi compagni e ai Caledoni il compito di trovare la fata e di placarne l’ira.
Nessuno lo fece.
Questa è solo una leggenda, ma nel corso dei secoli, Caledonia è stata, effettivamente, distrutta tre volte: dai nani, dagli elfi e dal terremoto.
La leggenda ne predice una quarta, ma è solo una leggenda.